Il termine dispepsia deriva dalle parole greche “dys” e “pepsis”, ovvero “digestione difficile”. All’interno di questa definizione vi rientrano una lunga serie di disturbi digestivi, una condizione di malessere riconducibile a sintomi e cause fra loro assai differenti. La problematica è molto diffusa e colpisce in prevalenza le popolazioni dei paesi industrializzati, dove la salute è spesso minacciata dagli stili di vita e da regimi alimentari errati.
Le cause scatenanti possono essere tante, concomitanti con scelte dietetiche estreme, stili di vita e abitudini errate. La condizione è comunque classificabile in organica e funzionale: nel primo caso si presenta in correlazione con problematiche che incidono sul benessere del tratto digestivo superiore, come esofagite, gastrite acuta e cronica, secondaria ad infezione da Helcobacter Pylori, duodenite, pancreatite, epatite e malattie delle vie biliari. A queste si aggiungono disturbi come la pseudo-ostruzione intestinale, le patologie intestinali motorie, la sindrome del colon irritabile, le neoplasie che possono interessare il tubo digerente o il pancreas, ma anche la gastroduodenite e la fibromialgia. Influiscono sulla manifestazione dei sintomi anche l’abuso di farmaci, di cibo o alcol, nonché l’eccesso di stress.
La dispepsia funzionale è un disturbo gastrico con sintomi differenti che riguardano la parte superiore dell’addome, senza una precisa patologia. Esistono altre due forme molto particolari della problematica: la dispepsia cardiaca, con problematiche al cuore e cardiopatia, e la dispepsia isterica, come conseguenza diretta dei turbamenti emotivi.
La dispepsia si manifesta attraverso una serie di sintomi, influenzati anche dalla presenza di patologie concomitanti, come nel caso della dispepsia organica. Quelli più diffusi si manifestano attraverso i classici bruciori di stomaco con relativo rigurgito acido, eruttazione, alitosi, nausea, vomito, dolore e pressione sulla parte alta dell’addome.
A questi si deve aggiungere una sensazione di forte pesantezza durante la fase digestiva, che risulta molto lunga e faticosa, nonché l’intolleranza ad alcuni cibi come grassi, fritti, alcune tipologie di carne e uova. Il bruciore di stomaco può incidere sul consumo dei pasti: a volte la condizione favorisce una falsa sensazione di sazietà, favorendo un forte dimagrimento o il rifiuto del cibo stesso. Anche lo stress e l’ansia possono turbare la salute del tratto digerente e alterare l’assorbimento delle sostanze nutritive.
La Dispepsia è un sintomo molto aspecifico, che deve essere contestualizzato in un quadro clinico più preciso. L’utilizzo dei cannabinoidi dipenderà dalla patologia di partenza individuata come causa di questo disturbo. In caso di agenti infettivi (Helicobacter) non ci sarà il razionale per l’uso della cannabis medicale; mentre in patologie come Fibromialgia, infiammazioni croniche intestinali, neolpasie ecc…la terapia si può assolutamente considerare e strutturare sulla base del quadro clinico di partenza e delle esigenze del paziente. Potrebbe risultare molto utile un intervento nutrizionale esperto sia come cura che come prevenzione della dispepsia.
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La malformazione di Chiari – o sindrome di Arnold-Chiari – è un’anomalia congenita che coinvolge il cervelletto, caratterizzata da una serie di sintomi dovuti a una configurazione errata della fossa cranica posteriore. In presenza del disturbo, la fossa cranica che normalmente accoglie il cervelletto risulta infatti alterata. Questa condizione determina l’erniazione dell’organo dalla sua sede naturale.
Questa alterazione, nota come protrusione del cervelletto, colloca l’organo all’interno del foro occipitale posto alla base del cranio. Si parla quindi più precisamente di ernia cerebellare. Il foro occipitale, o forame magno, è invece un’apertura posta alla base del cranio, necessaria per mettere in comunicazione il canale spinale con la cavità cranica. All’interno dello stesso si può identificare la presenza del midollo allungato e del midollo spinale, le arterie vertebrali e le arterie spinali anteriori e posteriori. È inoltre essenziale per il passaggio del fluido cefalorachidiano, noto anche come liquor.
La malformazione si manifesta attraverso quattro stadi specifici, identificati con numeri romani (I, II, III e IV): a distinguerli è la tipologia di protrusione e il quantitativo di cervelletto interessato. La malformazione di Chiari di tipo I è considerata asintomatica, ovvero senza segnali evidenti fino all’infanzia o alla tarda adolescenza. La mancanza di spazio spinge una parte del cervelletto a cercare una nuova collocazione nella zona adibita ad accogliere il canale spinale. La condizione non ha sintomi particolari e i pazienti conducono la loro esistenza in completa serenità. Spesso non sono nemmeno consapevoli della sindrome, scoperta per caso nel corso di altri esami diagnostici.
La malformazione di Chiari di tipo II è congenita e asintomatica, con una protrusione maggiore rispetto a quella di tipo I, che comprende anche il vermis cerebellare e la parte inferiore degli emisferi. La sua comparsa avviene in contemporanea con una forma particolare di spina bifida, nota come mielomeningocele, che definisce il blocco del flusso del liquor attraverso il foro occipitale. In questo caso si può creare una condizione nota come idrocefalo, con relativa interruzione della segnalazione nervosa.
La sindrome di tipo III è congenita e causa problemi neurologici molto gravi, dati da un’erniazione marcata del cervelletto, nota anche come encefalocele occipitale. Anche in questo caso la malformazione si presenta con idrocefalo e siringomielia, ovvero la formazione di cisti nel canale spinale. Infine la malformazione di Chiari di tipo IV è caratterizzata dalla mancata formazione di una parte del cervelletto, conosciuta come agenesia cerebellare, ed è del tutto congenita. Le ultime due condizioni della malattia sono le più gravi, tanto da essere incompatibili con la vita.
La sindrome di Arnold-Chiari potrebbe avere un’origine di tipo genetico con maggiore incidenza tra i membri della stessa famiglia. I sintomi variano in base alle specifiche della malattia: la tipologia I è asintomatica, ma in alcuni casi possono presentarsi alcuni segnali quali forti mal di testa conseguenti a colpi di tosse, starnuti e sforzi eccessivi. A questi si possono aggiungere dolore a collo e viso con perdita di equilibrio, capogiri, difficoltà alla vista, raucedine, disfagia, senso di soffocamento mentre si mangia, vomito, intorpidimento degli arti, mancata coordinazione, scoliosi, bradicardia e apnea notturna.
I sintomi della malformazione di Chiari II sono gli stessi della tipologia I ma più intensi, a cui si aggiungono difficoltà a controllare vescica e intestino, convulsioni, debolezza muscolare con paralisi, deformità a bacino, piedi e ginocchia, con relativi problemi nel movimento, nonché corpo calloso enormemente sviluppato. La tipologia III presenta sintomi molto gravi associati alla presenza di problemi neurologici, idrocefalo e siringomielia. Il paziente presenta dolore, paralisi e rigidità muscolare, debolezza, mancanza di riflessi, in un quadro generale complesso. La tipologia IV spesso porta alla morte del feto. Le protrusioni di tipo II, III e IV sono visibili in fase prenatale attraverso un esame ecografico, la tipologia I solo quando si palesano i sintomi.
Nelle manifestazioni sintomatiche di malattia la terapia con cannabinoidi può alleviare il dolore, la nausea, le turbe dell’equilibrio e la rigidità muscolare. L’utilizzo sia del THC che del CBD è mirato a migliorare la qualità di vita dei pazienti, per cui verrà stabilita la migliore formulazione al momento della visita e verrà valutata la risposta individuale nei periodi successivi all’inizio del trattamento.
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La neuropatia diabetica è una complicazione del diabete mellito che investe i nervi periferici degli arti inferiori, con una condizione di dolore cronico e spesso associato a problematiche cardiovascolari. La gravità della neuropatia è direttamente proporzionale alla progressione della patologia di base e ad uno scarso compenso glicemico, per dieta sbilanciata e/o terapia inefficace. Nonostante le cause della patologia non siano ancora del tutto chiare, è stata riscontrata una correlazione con le alterazioni metaboliche e microvascolari.
La malattia è molto diffusa tra i pazienti colpiti dal diabete di tipo 2, ma può investire anche quelli affetti dal tipo 1. Le cause della neuropatia sono riconducibili alla condizione diabetica, in associazione a problematiche riguardanti il sistema nervoso periferico in corso di prediabete (ridotta tolleranza glucidica), quasi sempre in coppia con la cosiddetta sindrome metabolica. Quest’ultima è caratterizzata da un eccesso di grasso addominale, un aumento di colesterolo e trigliceridi, ipertensione arteriosa e insulino-resistenza.
L’iperglicemia è proprio la responsabile della neuropatia diabetica, perché agisce direttamente sulle fibre nervose, compromettendone il funzionamento. La situazione è favorita dalle alterazioni metaboliche e microvascolari, con conseguenti processi ischemici che interessano i capillari che irrorano e nutrono le fibre nervose. Il risultato è una perdita della guaina mielinica di rivestimento delle fibre, che ne altera la struttura e la funzionalità.
La condizione si divide in polineuropatia simmetrica, neuropatia autonomica, radicolopatia, neuropatia dei nervi cranici e mononeuropatia. La polineuropatia simmetrica è la forma più diffusa e colpisce la parte distale di piedi e mani, con diminuzione della forza muscolare e percezione del dolore, con forte predisposizione allo sviluppo di ulcere, infezioni, fratture e alterazione della struttura del piede. La neuropatia autonomica favorisce un calo profondo di pressione, tachicardia a riposo e problematiche che investono l’apparato digerente e quello sessuale.
La radicolopatia interessa le radici nervose degli arti inferiori e la zona addominale, provocando dolore. La neuropatia dei nervi cranici colpisce i nervi del cranio e dell’occhio, incidendo sulla vista e sulle funzioni motorie degli stessi e delle palpebre, fino alla paralisi motoria. La mononeuropatia invece riguarda il funzionamento delle dita e dei piedi, con intorpidimento e debolezza.
Come anticipato, la neuropatia diabetica si concentra sui nervi incidendo sulle capacità di movimento e sulla fluidità degli spostamenti, causando dolore, spasmi, intorpidimento, formicolio e piccole scariche elettriche. Ma anche bruciore e prurito, dolorabilità generale, fitte lancinanti superficiali alle dita, sudorazione, sensazione di freddo o gelo, alternato con caldo eccessivo e gonfiore. Tra i sintomi si possono individuare una serie di problematiche legate alla funzionalità degli occhi, del cuore e all’apparato gastrointestinale. Sono presenti dolore, anche molto intenso, e disfunzioni dell’apparato sessuale, come secchezza vaginale e difficoltà di erezione.
La terapia con cannabinoidi trova spazio nel trattamento della neuropatia diabetica per il suo effetto antalgico sul dolore neuropatico, soprattutto dovuto al THC, e per gli effetti ipoglicemizzanti, immunomodulatori e antinfiammatori del CBD. Nei pazienti con questa patologia il quadro clinico è spesso molto complesso e spesso trattato con più farmaci. L’affiancamento di una terapia a base di cannabinoidi non porta a gravi interazioni, che sono soprattutto dose dipendenti, e potrebbe aiutare nel ridurre il dosaggio di altri farmaci presenti in terapia (insulina, ipoglicemizzanti, farmaci per la pressione, antidepressivi….) riducendo il complessivo rischio di effetti collaterali.
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I tumori solidi rappresentano una particolare tipologia di cancro che si presenta in forma solida, così come suggerisce il nome, a differenza delle leucemie e dei linfomi.
I tumori solidi sono una categoria di tumori, ovvero una proliferazione senza controllo di cellule trasformate a causa di differenti fattori, che possono essere sia benigni che maligni. I tumori maligni, in particolare, hanno origine in un organo specifico (quello che rappresenta il tumore primario) fino a diffondersi a organi distanti attraverso il sistema circolatorio o linfatico, dando il via alla formazione di tumori secondari (conosciuti anche con il nome di metastasi).
La struttura specifica dei tumori solidi richiama alla mente quella del tessuto sano, formata da due separate sezioni denominate parenchima e stroma. Le tipologie di tumori solidi esistenti sono molte, in base agli organi coinvolti e all’evoluzione della malattia, e possono colpire ogni fascia della popolazione indipendentemente dall’età o dal sesso. Tra i più diffusi in Italia vi sono i tumori della mammella, della prostata, del polmone e del colon-retto. In particolare, in età pediatrica i principali tumori riscontrati sono quelli del sistema nervoso centrale, il tumore di Wilms, il neuroblastoma, i sarcomi (tra cui il sarcoma di Ewing), gli osteosarcomi e il retinoblastoma.
Generato da una mutazione di geni che regolano la vita e la proliferazione delle cellule, l’accumulo anomalo può scatenare la degenerazione cellulare:, solitamente in tempi variabili in base anche all’età del paziente, a causa di fattori ambientali o l’esposizione ad agenti cancerogeni. Tra i fattori scatenanti più noti ci sono il fumo di sigaretta, l’amianto o alcune sostanze chimiche derivate da processi industriali. Anche le abitudini alimentari non corrette possono aumentare il rischio di insorgenza tumorale, ovvero una dieta non equilibrata, povera di frutta e verdura e sbilanciata su alimenti di origine industrialei, il sovrappeso, l’abuso di alcol e una scarsa attività fisica con conseguente sedentarietà.
I tumori solidi possono presentarsi con sintomi specifici in base al tipo di patologia e alla sua localizzazione. Questa formazione viene individuata attraverso esami strumentali. Può essere sospettata in seguito alla comparsa di sintomi oppure può essere talvolta riscontrata accidentalmente nel corso di indagini eseguite per altri motivi.
In base alla posizione e alle dimensioni, gli specialisti possono scegliere la migliore metodologia di intervento. Le strategie disponibili per curare queste patologie sono di tipo chirurgico, chemioterapico o radioterapico. La scelta della cura, che può comprendere anche tutte e tre le metodiche, dipende dalla localizzazione, dalle dimensioni e dalla presenza o meno di metastasi. Tenendo conto anche delle condizioni cliniche del paziente al momento della diagnosi e dalle sue scelte individuali, che vanno sempre considerate. Segue la radioterapia, ovvero radiazioni che vanno a intercettare le cellule cancerose evitando quanto possibile i tessuti circostanti ancora sani, e in ultimo l’operazione chirurgica. Spesso si sceglie di utilizzare un approccio combinato contro i tumori solidi, impiegando in prima fase la chemioterapia in modo da ridurre le dimensioni della massa (chemioterapia neoadiuvante) e successivamente rimuovendo chirurgicamente la massa stessa.
I cannabinoidi possono intervenire in questo tipo di patologie sia per aspetti legati direttamente alla clinica, sia per ridurre gli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici e antidolorifici oppiacei. In particolare si può valutare un preparato con percentuali equivalenti di THC e CBD, come il Bediol, per agire sui dolori, sulla nausea/vomito e inappetenza, sul tono dell’umore, sulla stipsi e sulle neuropatie spesso provocate dai farmaci. Molti di questi effetti dipendono dal THC che come sappiamo ad alte dosi può dare effetti psicotropi, tachicardia e ipotensione. Il CBD ha gli importanti ruoli di immunomodulatore e antinfiammatorio e inoltre mitica notevolmente gli effetti indesiderati del THC. Sono presenti studi su modello animale, relativi ad alcune tipologie specifiche di tumore (glioblastoma), in cui l’utilizzo di dosi elevate di THC rallenterebbero la progressione della malattia, talvolta riducendo le dimensioni della massa primaria. Per il momento utilizziamo i cannabinoidi soprattutto come terapia sintomatica, volta a migliorare la qualità della vita dei pazienti.
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Le cure palliative sono un insieme di trattamenti terapeutici, diagnostici e assistenziali ideati per garantire all’individuo la più elevata qualità di vita possibile nella fase terminale di una malattia. Regolamentato dalla Legge n. 38 del 15 maggio 2010, questo insieme di misure non riguarda unicamente il paziente la cui prognosi è infausta, ma anche la sua famiglia: lo scopo è quello di fornire un’assistenza quanto più possibile estesa in una fase tanto delicata dell’esistenza.
Così come già accennato, le cure palliative sono destinate ai pazienti affetti da una malattia in fase terminale. Con questa definizione si identificano tutte quelle patologie che, per svariate ragioni, non rispondono più efficacemente alle terapie: in questo caso lo scopo non è più quello di assicurare la guarigione, bensì fornire un supporto costante per assolvere alle necessità fisiche e psicologiche del malato e dei suoi familiari. Proprio per questa ragione, le cure palliative non possono essere considerate come delle misure che avvicinano o ritardano il momento del decesso. In linea generale, vengono garantite a soggetti la cui aspettativa di vita è inferiore ai 12 mesi. Possono però avervi accesso anche pazienti affetti da gravi patologie, ma di cui ancora non si conosce il possibile esito: è ad esempio il caso degli individui sottoposti a importanti cicli di chemioterapia, i quali potranno accedere a specifici trattamenti per migliorare la loro qualità di vita. Per questa specifica applicazione si parla più propriamente di cure palliative precoci o simultanee.
Sul fronte terapeutico, le cure palliative possono includere interventi sia farmacologici che non farmacologici. Nel primo caso, si tratta sostanzialmente di farmaci utili contro il dolore o per gestire alterazioni dell’umore, come ansiolitici e antidepressivi. Tra i metodi non farmacologici vi rientrano invece tecniche come agopuntura, massaggi e fisioterapia, nonché percorsi di tipo psicoterapico e psichiatrico. A questi si aggiungono servizi assistenziali di vario genere per il malato e la sua famiglia, affinché vengano assolte tutte le necessità psicologiche, sociali e spirituali che potrebbero manifestarsi lungo questo difficile percorso.
Oggi il ricorso ai trattamenti terapeutici e assistenziali del fine vita sono destinati soprattutto a individui colpiti da irreversibili malattie oncologiche, cardiologiche, respiratorie e neurologiche. Le cure palliative possono essere offerte in ospedale, al domicilio del paziente, negli hospice o in altre strutture residenziali abilitate. L’elenco delle misure disponibili, dei centri autorizzati e delle associazioni di volontariato accreditate è definito a livello regionale.
Così come già accennato, le cure palliative si concentrano su tutti i fronti dell’esistenza del malato terminale e dei suoi familiari. Il primo aspetto che viene preso in considerazione è quello delle conseguenze fisiche della malattia sul paziente, nel tentativo di migliorarne le condizioni di vita con un approccio di tipo farmacologico. Molte patologie terminali, come ad esempio diverse forme tumorali, si possono caratterizzare per intensi e duraturi dolori: questi ultimi verranno controllati dall’equipe medica con la somministrazione di appositi farmaci, pensati per eliminare o quantomeno ridurre le sensazioni più spiacevoli. Ancora, può essere proposta una sedazione palliativa negli ultimi giorni di vita, quando il dolore non è più gestibile altrimenti.
L’approccio farmacologico va di pari passo con il supporto psicoterapico. La diagnosi di una malattia terminale può comportare nel paziente un più che comprensibile stato di confusione, alternato da momenti di ansia e altri di depressione. La psicoterapia può aiutare a gestire queste forte emozioni e, se necessario, possono essere prescritti ansiolitici o antidepressivi per rendere più sopportabile questa fase dell’esistenza. Il supporto di psicologi e psicoterapeuti può inoltre essere esteso alla famiglia, sia durante il decorso della malattia che nelle settimane successive al suo esito finale.
Non mancano poi una lunga serie di misure assistenziali, come la somministrazione di cure a domicilio se le condizioni lo permettono, sedute di fisioterapia e massaggi per rilassare i muscoli e ridurre il dolore, attività di socializzazione attiva e molto altro ancora. Alcune associazioni di volontariato si occupano anche di assistenza burocratica e abitativa, ad esempio fornendo ai parenti delle sistemazioni agevoli nelle vicinanze della struttura ospedaliera in cui il paziente è ricoverato.
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Per disturbi alimentari si intende una grande famiglia di problematiche di tipo psicologico, inerenti il rapporto dell’individuo con il cibo. In ambito psicoterapico si parla più propriamente di Disturbi del Comportamento Alimentare (DAC) o di Disturbi Alimentari Psicogeni (DAP). Con la pubblicazione della quinta edizione del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (DSM-5), queste problematiche sono state raccolte all’interno dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione.
In linea generale, i disturbi alimentari si caratterizzano per una pesante modifica delle abitudini legate alla nutrizione, spesso determinata da un’alterata percezione del proprio corpo, da un’eccessiva attenzione alla salubrità dei cibi, dalla necessità di sopperire con gli alimenti a stati di disagio psicologico come ansia e depressione. Il soggetto che ne soffre può adottare dei comportamenti disfunzionali come il rifiuto del cibo, l’ingestione di elevate quantità di pietanze in un lasso di tempo ridotto, la stimolazione del vomito, l’assunzione di farmaci dall’effetto anoressizzante o di lassativi, l’evitamento immotivato di alcuni nutrienti per il timore di subire effetti avversi, nonché praticare ossessivamente esercizio fisico.
I disturbi alimentari tendono a manifestarsi più frequentemente nel corso dell’adolescenza e nel sesso femminile, tuttavia non ne sono affatto esenti gli uomini e gli adulti. Tra le problematiche identificate dal DSM-5, si elencano in breve:
Sebbene non ancora inclusa nel DSM-5, negli ultimi anni si rileva una crescita esponenziale dell’ortoressia, ovvero un’enorme e ingiustificata attenzione nei confronti delle regole alimentari, della scelta dei cibi e delle loro caratteristiche nutritive. Il soggetto ortorettico prova un terrore insuperabile nei confronti di tutti quegli alimenti che, per precise evidenze scientifiche o per immotivata convinzione personale, potrebbero non essere perfettamente indicati per la salute dell’organismo. Questa tendenza porta a evitare una grande quantità di cibi, spesso compensando le conseguenti carenze nutrizionali con integratori.
Il trattamento dei disturbi alimentari richiede percorsi specifici a seconda della tipologia di problematica, con un approccio multidisciplinare che comprenda la psicologia, la psichiatria, la gastroenterologia e l’endocrinologia.
I disturbi alimentari si caratterizzano per comportamenti assai differenti a seconda della tipologia di problematica sperimentata. Così come accennato, possono manifestarsi con il rifiuto ossessivo del cibo, il consumo di alimenti in grande quantità seguito dall’abuso di lassativi o dal vomito autoindotto, l’assunzione di materiali non commestibili, il ricorso eccessivo a integratori e molto altro ancora.
Queste problematiche non andrebbero mai sottovalutate, poiché possono avere conseguenze gravi sulla salute. Anoressia e bulimia, ad esempio, possono rapidamente condurre al dimagrimento incontrollato, tanto da richiedere il ricovero ospedaliero poiché grave minaccia per la sopravvivenza. I soggetti affetti da picacismo spesso si imbattono in ostruzioni dell’apparato digerente con conseguente danneggiamento dei tessuti di esofago, stomaco e intestino, mentre gli ortorettici possono essere colpiti da gravi carenze alimentari. Obesi e pazienti affetti da Binge Eating Disorder, infine, accumulano grandi quantità di adipe che rischiano di favorire patologie cardiocircolatorie, diabete e predisporre a tumori.
I disturbi alimentari sono una situazione clinica particolare, che va innanzitutto individuata correttamente e in seguito affrontata in modo multidisciplinare, con il supporto di un nutrizionista esperto e di un counselor che seguano il paziente in modo complementare. La terapia con cannabinoidi può essere un supporto importante per la gestione della componente emotiva e psicologica e per gli effetti diretti sull’appetito e sull’intestino. Con il/la paziente andrà concordata la terapia più adeguata, che potrà prevedere un utilizzo concomitante di THC e CBD oppure di uno solo dei due principi attivi, in base alla valutazione iniziale e alla risposta individuale al trattamento.
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La sindrome da deficit di attenzione e iperattività, conosciuta con il nome di ADHD, è un disturbo legato principalmente all’età infantile e adolescenziale dello sviluppo neuro-psichico
Tra i sintomi principali della sindrome da ADHD vi sono deficit di attenzione, impulsività sia dal punto di vista della parola che del comportamento, oltre a un’iperattività motoria. Per questo motivo, i bambini che ne sono colpiti si mostrano estremamente irrequieti o eccessivamente vivaci, distratti e incapaci di rimanere seduti a seguito di un comando impartito dalla figura dell’adulto.
Un bambino con ADHD può parlare in maniera continuativa, sovrapponendosi all’interlocutore senza attendere che l’altro abbia terminato la propria richiesta. Facilmente provocati e coinvolti dagli stimoli del mondo esterno, i bambini che mostrano i sintomi della sindrome da deficit di attenzione e iperattività possono trovare difficoltà anche nell’apprendimento, legate a disgrafia o dislessia, riportando in alcuni casi anche delle comorbidità ansiose e depressive, con disturbi del sonno. Nell’adulto, invece, l’ADHD si modifica aumentando o diminuendo di intensità in base a molteplici fattori. Chi, una volta completata la fase della crescita, si trova ancora ad affrontare i sintomi della sindrome può incorrere in importanti problematiche legate alle relazioni interpersonali, insieme a bassa tolleranza allo stress e marcata impulsività. Nei casi più gravi, questi comportamenti possono sfociare nell’abuso di alcol o sostanze stupefacenti.
In questo tipo di patologia trova soprattutto applicazione il CBD (Cannabidiolo). Questo principio attivo è stato studiato per i suoi effetti antipsicotici, particolarmente spiccati a cui si associano scarsi effetti collaterali anche ad alte dosi. L’uso del THC invece merita un’attenzione maggiore e va valutato di caso in caso, poichè i suoi effetti psicotropi potrebbero influire negativamente sul quadro sintomatologico.
Affrontando questo tema in maniera molto generica possiamo dire che la terapia con cannabinoidi può essere un buon alleato nella gestione degli episodi di cefalea o emicrania, potendosi affiancare alle terapie già presenti e potendo intervenire sia nelle acuzie, soprattutto con i preparati per via inalatoria, sia nel cronico a scopo preventivo, specie nei casi a origine nevralgica o tensiva. Si dovrà trovare insieme al paziente la modalità di trattamento più adeguata tenendo conto della tipologia di ceafalea, dell’età, dei progressi clinici e sintomatologici e molto probabilmente si dovrà intervenire sullo stile di vita per individuare i cosiddetti “trigger”, ovvero quei fattori che possono scatenare la crisi, lavorando sulla salute alimentare e psicofisica del singolo soggetto. L’obiettivo è arrivare soprattutto a rendere le crisi meno frequenti ed intense, con un risultato che può variare da individuo a individuo.
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Il disturbo post-traumatico da stress è un particolare disturbo psicologico che si presenta in concomitanza di traumi di particolare intensità.
Il disturbo post-traumatico da stress è un disturbo che compare, a distanza di giorni come di anni, in seguito a un evento fortemente doloroso vissuto, o a cui ha assistito, la persona colpita. Non c’è un’età specifica per essere colti da questa significativa patologia, ma si stima che a esserne affetti sono soprattutto le persone appartenenti alla categoria dei giovani adulti. Più esposti sono gli esponenti di alcune particolari categorie, come i membri delle forze armate e delle forze dell’ordine, ma anche soccorritori chiamati a intervenire in situazioni di particolare rischio, vittime di disastri naturali, guerre, catastrofi antropiche o di aggressioni di natura fisica o sessuale. Può inoltre influire una pregressa bassa tolleranza allo stress, che può portare all’esordio dei sintomi anche in condizioni che, in altri casi, non darebbero luogo alla comparsa del disturbo.
A scatenare il disturbo può essere un evento vissuto in maniera attiva, come un incidente, una catastrofe o una grave malattia, oppure di riflesso, cioè se dell’evento si è stati spettatori o a subire gravi lesioni, malattie o morte è stato qualcuno di particolarmente significativo come un familiare o un amico. In ogni caso, gli eventi hanno in comune la presenza di minacce particolarmente gravi all’integrità psicofisica, propria o delle persone care, a cui non è possibile reagire in maniera determinata o risolutiva. Chi soffre di disturbo post-traumatico da stress può presentare anche altri sintomi di malessere che, in alcuni casi, possono essere confusi con altre patologie. In particolare la presenza di ansia, abbassamento del tono dell’umore, perdita di interesse nei confronti del mondo circostante sino alla dissociazione (ovvero un’alterazione dell’identità) possono confondere e portare verso una diagnosi errata.
Sono molteplici i sintomi che possono presentarsi in chi soffre di disturbo post-traumatico da stress. In seguito a un evento scatenante, chi ne è colpito può sviluppare una sensazione di paura e di incapacità di reazione, tentando così di sopprimerne il ricordo. Nonostante lo sforzo, la persona è costretta a subirne nuovamente le sensazioni dolorose tramite ricordi, immagini o percezioni che possono addirittura sfociare in flashback o allucinazioni.
Caratteristico è anche l’incremento dell’eccitabilità, insieme a improvvisi attacchi di collera e ipervigilanza. Non meno frequente è la presenza di un’elevata reattività fisiologica in caso di esposizione a eventi che in qualche modo ricordano il trauma. A pagarne le conseguenze è soprattutto il sonno, che tende a diminuire sia nella durata che nella qualità. Per essere caratterizzato come tale, il disturbo post-traumatico da stress si deve presentare a distanza dall’evento traumatico ed essere riscontrabile per almeno un mese. Data la lunghezza del periodo di permanenza, questo disturbo può compromettere in maniera sensibile la qualità della vita di chi ne è affetto, diminuendone a lungo andare la funzionalità fisica, oltre a quella psichica.
La terapia con cannabinoidi è da tempo utilizzata con successo in questo campo. Il THC e del CBD agiscono sull’insonnia, sull’ansia, sullo stress, sui flashback e su quello che abbiamo visto comporta questa patologia, spesso in modo positivo ma con una notevole variabilità individuale. Il THC inoltre va valutato caso per caso e con attenzione per via dei suoi effetti psicotropi che non sempre possono essere d’aiuto nel controllo dei sintomi, enfatizzandoli. Il CBD per contro è più maneggevole e ha in questo caso una funzione soprattutto antipsicotica. La terapia migliore va concordata con il paziente, cui sarà suggerito un parallelo percorso di supporto psicologico e di counseling, in modo da avere tutti gli strumenti possibili per affrontare le difficoltà che questa situazione comporta.
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La stipsi cronica è una forma di costipazione prolungata nel tempo, che si caratterizza con la difficoltà di svuotare regolarmente l’intestino dalle feci. A differenza della stitichezza generica, determinata perlopiù da stili alimentari e di vita errati oppure dalla momentanea alterazione della flora intestinale, la stipsi cronica presenta spesso un’origine clinica. Può infatti essere determinata da disturbi e patologie a carico dell’intestino, come la diverticolosi, vari tumori al colon-retto, ma anche disfunzioni motorie sia dell’intestino che dell’ano. Ancora, può presentarsi come conseguenza secondaria di altre malattie, frequentemente neurologiche, o derivare dall’uso prolungato di alcuni farmaci.
La stipsi cronica è un disturbo di difficile identificazione, poiché condivide segni e sintomi sia con la costipazione generica che con altre patologie. In linea generale, si sospetta una forma di stitichezza cronica quando le evacuazioni sono meno di 3 alla settimana, la problematica si presenta da almeno sei mesi e non vi sono sintomi che indichino invece la presenza della SII, ovvero la sindrome da intestino irritabile.
Questo tipo di costipazione duratura viene classificata in due differenti categorie, quelle della stipsi cronica primaria e secondaria. Nel primo caso, il disturbo è di natura idiopatica: la stitichezza prolungata nel tempo non è correlata a patologie pregresse né ad alterazioni specifiche delle funzionalità dell’intestino. La stipsi cronica primaria idiopatica è considerata semplice quando risponde a trattamenti di tipo farmacologico, mentre viene definita intrattabile quando i medicinali non sono in grado di ripristinare il normale transito intestinale.
La stipsi cronica secondaria è invece conseguenza di altri disturbi, patologie o della somministrazione di alcuni farmaci. Possono determinare stitichezza cronica il diabete, il morbo di Parkinson, la diverticolite, i tumori a carico del colon, varie alterazioni della muscolatura addominale, molte invalidità di tipo psicofisico e il ricorso prolungato nel tempo ad analgesici, antidepressivi, antiacidi e anticolinergici.
Il trattamento è scelto dallo specialista in base alle cause scatenanti. Di norma, per la stipsi cronica primaria il primo approccio è farmacologico, con la somministrazione di medicinali utili sia ad ammorbidire la consistenza delle feci che a stimolare la peristalsi intestinale. Quando secondaria può essere necessario anche un intervento chirurgico, come ad esempio in presenza di tumori ostruttivi che impediscono il normale passaggio delle feci.
La stitichezza cronica condivide gran parte dei sintomi con la costipazione più generica, seppur prolungati nel tempo. Si verifica un’oggettiva difficoltà nell’evacuazione delle feci, spesso accompagnata da gonfiore, dolore dovuto all’eccessivo sforzo dei muscoli addominali e spossatezza generalizzata. La problematica può essere accompagnata dalla sensazione di non riuscire a svuotare completamente l’intestino, così come anche da nausea e da alterazione dell’appetito.
In modo simile alla stitichezza più classica, possono palesarsi sintomi e segni conseguenti all’attività di sforzo nella defecazione, quali emorroidi e ragadi a livello dell’ano. Le feci sono normalmente scure, secche ed eccessivamente maleodoranti, a volte accompagnate anche da muco. Possono essere presenti anche striature di sangue vivo: queste ultime sono solitamente conseguenza della rottura di piccoli capillari o di lacerazioni nell’area anale per l’eccessivo sforzo o per il passaggio di feci estremamente dure.
La stipsi cronica è più frequente nell’età avanzata, quando si mangia e si beve poco oltre a muoversi meno, inoltre spesso concomitano trattamenti polifarmacologici. Indipendentemente dalla causa, la terapia con cannabinoidi ha un buon impatto sul transito intestinale, diminuendo lo stato infiammatorio della mucosa intestinale (CBD) e il cosiddetto “Leaky gut” che sicuramente sono elementi comuni a molte condizioni. Vanno ricercati effetti più diretti sulla muscolatura intestinale, di cui si sa ancora poco, ma un effetto indiretto nei casi di stipsi secondaria a farmaci (per lo più oppiacei) è quello di permettere di ridurre il dosaggio di questi ultimi, diminuendo quindi anche i loro effetti collaterali, tra cui appunto la stipsi. Va sempre considerato un intervento nutrizionale, al fine di intervenire direttamente sulla patologia di base e sul microbiota e recuperare al meglio le capacità di funzionalità e assorbimento del nostro intestino sul lungo termine.
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La polimialgia reumatica è una malattia infiammatoria che colpisce principalmente il collo, le spalle e le anche. Se non trattato precocemente, il disturbo può però estendersi ad altre parti del corpo coinvolgendo anche gli avambracci e, con frequenza ben più rara, gli arti inferiori.
Questo processo infiammatorio coinvolge sia i muscoli che il rivestimento delle principali articolazioni, provocando una sensazione di dolore diffuso, spesso molto intenso. La problematica si manifesta infatti con un’eccessiva rigidità muscolare proprio a livello delle spalle, del collo e delle anche, tanto da limitare i movimenti e rendere particolarmente difficoltose le varie attività quotidiane.
La polimialgia reumatica colpisce soprattutto gli over 55 e, per questa ragione, è considerata una malattia tipica della terza età. Le cause del disturbo non sono a oggi pienamente conosciute, tuttavia si è osservata una correlazione con la presenza di altre problematiche reumatiche, come l’arteite di Horton. Questa malattia si caratterizza con l’infiammazione di arterie di media e grande dimensione, in particolare concentrate nel capo. Ancora, si sospetta che alla base della polimialgia vi possano essere dei fattori sia di tipo genetico che ambientale.
Non di rado la diagnosi di polimialgia reumatica è tardiva, poiché tende a essere confusa con altri disturbi, soprattutto nelle sue fasi iniziali. Agli esordi il paziente è portato a sottovalutare il dolore percepito, attribuendolo a comuni problemi cervicali, contratture oppure a malesseri passeggeri, come l’indolenzimento dei muscoli dovuto alle classiche malattie stagionali da raffreddamento. Altre volte l’indagine diagnostica si concentra sull’artrite reumatoide, con cui la polimialgia condivide i sintomi ma non la sede della loro apparizione.
Oltre al dolore e alla rigidità muscolare, tanto debilitanti da rendere impossibili le più banali attività quotidiane, l’infiammazione presenta dei sintomi secondari aspecifici, anche questi frequentemente confusi con altri disturbi. Possono infatti palesarsi stanchezza, febbre, perdita di peso e alterazioni dell’appetito. Proprio poiché modifica la normale routine giornaliera e limita i contatti sociali, la polimialgia può essere anche alla base di fenomeni ansiosi o depressivi.
La polimialgia reumatica può essere efficacemente trattata con la somministrazione di corticosteroidi, soprattutto se il disturbo viene identificato precocemente. Non sempre, però, i pazienti riescono a tollerare il trattamento per lunghi periodi, anche in considerazione dei noti effetti collaterali.
Così come già accennato, la polimialgia reumatica si manifesta soprattutto con un intenso dolore a livello del collo, delle spalle e delle anche, accompagnato da rigidità muscolare. La sensazione dolorosa è spesso così intensa da impedire al paziente di alzarsi dal letto: il disturbo è talmente limitante da rendere complesse attività quotidiane semplici, come vestirsi, sollevare oggetti, entrare nella vasca da bagno, aprire ante e porte e molto altro ancora.
I pazienti tendono a sentirsi fisicamente stanchi, una spossatezza che può avere riflessi anche a livello psicologico, con difficoltà di concentrazione e confusione. Poiché frena fortemente i normali movimenti, il disturbo spinge il soggetto colpito a rimanere in casa, coricato a letto o adagiato su divani e poltrone. Questa necessità porta a una riduzione sensibile delle occasioni d’incontro e socializzazione, determinando così disturbi dell’umore. Il dolore può inoltre provocare alterazioni del sonno, anche perché l’intensità dei sintomi tende ad aumentare proprio durante le ore notturne.
La terapia con cannabinoidi può apportare un miglioramento sul quadro clinico soprattutto agendo sui dolori diffusi e la rigidità muscolare, azioni dovute soprattutto al THC. Il CBD è utile per la sua azione antinfiammatoria ed immunomodulante. Una possibile strategia di partenza è utilizzare un preparato che contenga i due principi attivi in rapporto di circa 1:1, per beneficiare degli effetti terapeutici con minor rischio di sviluppare effetti collaterali, soprattutto quelli psicotropi del THC. Tali effetti sono comunque dose dipendenti. Non ci sono particolari controindicazioni a una simultanea assunzione di steroidi o altri farmaci comunemente utilizzati per la cura della Polimialgia.
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