Squalificata dai Giochi Olimpici di Tokyo perché risultata positiva al test sulla marijuana. È successo alla velocista statunitense Sha’Carri Richardson, dopo il rilevamento di THC, il principio psicoattivo della cannabis. La notizia ha riacceso un dibattito sull’uso della sostanza nello sport.
Cannabis e anti-doping
Dalla riduzione di ansia e infiammazione, fino all’attenuazione del dolore, la cannabis può avere diversi effetti benefici sugli sportivi. A preoccupare l’anti-doping, però, sono le proprietà psicoattive di uno dei principali componenti della sostanza, il THC, che potrebbe influire sulle prestazioni degli atleti.
Per questo, l’Agenzia Mondiale Anti-doping (WADA) ha inserito la cannabis nella lista delle sostanze proibite in tutti gli sport, a partire dal 2004. L’USADA, l’Agenzia statunitense che si occupa di contrastare il doping nello sport, è firmataria del Codice mondiale, che conforma i divieti riguardanti gli atleti USA agli standard internazionali. La marijuana si trova nella lista delle sostanze proibite dalla WADA perché, come riferito dall’USDA, soddisfa i criteri di inclusione stabiliti dall’Agenzia anti-doping.
Per essere aggiunta alla lista, la sostanza deve rappresentare un rischio per la salute degli atleti, avere il potenziale per migliorare le prestazioni e violare lo spirito dello sport. In un articolo pubblicato nel 2011 su Sport Medicine, l’Agenzia mondiale spiegava che gli atleti consumatori di marijuana “mettono potenzialmente in pericolo se stessi e gli altri a causa dell'aumento dell'assunzione di rischi, dei tempi di reazione più lenti e della scarsa funzione esecutiva o del processo decisionale". Inoltre, stando ad alcuni studi, sembra che la cannabis possa “migliorare le prestazioni di alcuni atleti e discipline sportive”, comportamento non “coerente con l'atleta come modello per i giovani di tutto il mondo".
Ma l’evoluzione del panorama legislativo legato al consumo della cannabis ha spinto anche le agenzie anti-doping ad adeguarsi al cambiamento. Nel 2018, infatti, la WADA ha eliminato il CBD dalla lista delle sostanze vietate. Restano ancora, però, restrizioni sul THC, che non può essere consumato dagli atleti di tutte le discipline sportive. Ma la situazione potrebbe cambiare a breve e la vicenda di Sha’Carri Richardson ha dato un nuovo impulso al tema della marijuana nello sport. Inoltre, diverse agenzie sportive stanno rivedendo le proprie regole in merito.
La posizione di NBA e NFL
Nel corso dell’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, la National Basketball Association (NBA) ha sospeso i test casuali che rilevano il consumo di marijuana da parte dei giocatori per la stagione 2020-2021. Una scelta che potrebbe diventare anche permanente perché, stando a quanto dichiarato dal commissario Adam Silver, è più importante individuare segni di dipendenza dalla sostanza, che un suo uso saltuario. Così, l’NBA ha rimosso il THC dalla lista delle sostanze da testare, perché proibite agli atleti.
Recentemente anche la National Football League (NFL) ha aperto un varco all'attenuazione delle norme sulla cannabis. Questo anno, infatti, per la prima volta, i giocatori non verranno sottoposti al test per rilevare il THC fino al 9 agosto.
Poi, una volta aperti i campi, il test riguarderà soglie più alte, dato che il limite della marijuana è stato aumentato da 35 nanogrammi a 150. Non solo. Vengono eliminate anche le sospensioni legate alla cannabis, sostituendole con delle multe. Così, la NFL abbandona una disciplina severa sull’uso di marijuana. Ma la Lega va oltre e avvia anche un programma di ricerca sulla gestione del dolore e sui cannabinoidi, con l’obiettivo di indagare il potenziale terapeutico dei trattamenti a base di cannabis, di valutare l’impatto della sostanza sulle performance degli atleti e capire le potenzialità della marijuana nell’ambito della gestione ortopedica.
La ricerca potrebbe dare importanti risposte in questo campo e spingere altre associazioni sportivi, non solo statunitensi ma anche europee, a cambiare la loro politica anti-doping e depenalizzare l’uso di marijuana. Per anni, i vari sport guidati dalla WADA hanno guardato la cannabis con diffidenza, proibendone l’uso ai propri giocatori e cercandone le tracce nei test precedenti e successivi alle gare. Ma adesso, i nuovi sviluppi sul tema che sta entrando sempre più spesso nel dibattito politico e giuridico potrebbero dare una spinta di depenalizzazione anche in ambito sportivo.
Il ruolo del CBD
Il cannabidiolo (CBD) è l’unico componente della marijuana il cui consumo viene permesso dall’Agenzia Mondiale Anti-doping. Oltre a non avere proprietà psicoattive, in ambito sportivo il CBD si è rivelato efficace anche nel trattamento di diverse problematiche incontrate spesso dagli atleti.
Il cannabidiolo, infatti, ha proprietà antinfiammatorie, il che lo rende utile nel processo di guarigione di infiammazioni, non rare dopo allenamenti intensi o sforzi fisici notevoli. Agendo sui recettori del sistema endocannabinoide, il CBD può aiutare l’organismo umano a riprendersi dopo un’attività fisica e permette di migliorare la qualità del sonno e lenire l’ansia, grazie alla sua capacità nel rilassare i muscoli.
Infine, il componente non psicoattivo della cannabis possiede anche proprietà analgesiche, che gli permettono di svolgere un’azione efficace contro il dolore: per questo, gli atleti che hanno accusato traumi sportivi, molto frequenti soprattutto nel rugby e nel football americano, potrebbero beneficiare dell’uso del CBD per riprendersi dalla situazione.
Oltre alle sue potenzialità terapeutiche, il cannabidiolo può essere anche un buon alleato contro il doping provocato anche dall'uso di THC. Uno studio pubblicato su The Lancet nell’ottobre 2020 sottolineava le proprietà del cannabidiolo per il trattamento del disturbo da utilizzo di cannabis. I ricercatori hanno sottolineato l’efficacia di precise dosi di CBD nel ridurre il consumo di marijuana. Il cannabidiolo potrebbe essere un’opzione di trattamento contro la dipendenza da cannabis anche secondo gli studiosi dell’University Collage di Londra che, nel 2019 avevano presentato una ricerca, che dimostrava le potenzialità del CBD contro la dipendenza da marijuana.