“Il Regno Unito è in ritardo” nella prescrizione della cannabis terapeutica. A lanciare l’allarme è lo studio condotto dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, che indaga i motivi di questa reticenza.
I prodotti a base di cannabis per uso medicinale (CBPM) vennero resi legali nel Regno Unito a partire dal novembre del 2018. I pazienti erano convinti che presto avrebbero potuto usufruirne, ma nell’ultimo anno il Servizio Sanitario Nazionale non ha rilasciato quasi nessuna prescrizione e quelle rese disponibili dai privati sono costate almeno 1.000 sterline al mese. Per questo, sottolineano i ricercatori, “alcuni genitori di bambini con epilessia grave continuano a recarsi all’estero per consentire ai propri figli di accedere all’unico trattamento che si è dimostrato efficace per la loro condizione, ovvero un farmaco cannabinoide”. Non solo. Molti pazienti, infatti, si procurano la cannabis terapeutica al mercato nero. Dati che dimostrano come il cambiamento si sia verificato a livello legislativo, ma non ancora nella pratica. L’obiettivo dello studio è quello di capire “il motivo per cui il Regno Unito è in ritardo rispetto a tanti altri Paesi che hanno legalizzato la cannabis medica”.
Spesso, i medici citano “prove insufficienti di efficacia” o il rischio elevato, per evitare di prescrivere cannabinoidi. Inoltre, chiamano in causa la mancanza di studi controllati con placebo, per giustificare questa loro resistenza. Secondo i ricercatori, però, “la principale critica alla mancanza di studi controllati con placebo è fuori luogo. I medici prescrittori spesso affermano erroneamente che senza di essi non possono prescrivere”. Ma in realtà, tra il 1999 e il 2014, sono oltre 50 i medicinali autorizzati dalla Food and Drug Administration e dall’Agenzia europea per i medicinali senza il supporto di studi randomizzato controllati.
I ricercatori dell’Imperial London College hanno individuato un altro motivo della resistenza dei medici: la cosiddetta sindrome del “non inventato qui”: “I medici britannici- spiegano gli scienziati- affermano di fidarsi solo dei dati raccolti qui, un atteggiamento giustificato dai nostri processi di valutazione della tecnologia sanitaria di alta qualità”. Ma, ignorare i dati raccolti in altri Paesi non è la strada giusta da prendere, perché “probabilmente distorce la verità”. Negli Stati Uniti sono più di 4 milioni i pazienti che utilizzano cannabis terapeutica, resa disponibile circa 10 anni fa, e che forniscono dati sul suo utilizzo. Si tratta di dettagli preziosi, che dovrebbero essere tenuti presenti nella valutazione dei medici del Regno Unito.
Infine, è motivo di reticenza anche la poca esperienza dei medici britannici con la cannabis terapeutica. “Per quasi 50 anni- spiegano i ricercatori che hanno condotto lo studio- la professione medica si è concentrata sui rischi della cannabis con estreme possibilità di danni, tra cui sterilità maschile, cancro ai polmoni e schizofrenia”. E ora, molti professionisti potrebbero non sapere che questi rischi non sono stati confermati per la cannabis terapeutica, risultando le possibili conseguenze di un uso ricreativo della sostanza. “Qui l’istruzione è la soluzione”, affermano i ricercatori.
Le migliaia di pazienti britannici che ricorrono alla cannabis terapeutica, anche facendo ricorso al mercato nero, dimostrano il largo utilizzo di questo prodotto, ritenuto efficace nel trattamento di molti disturbi, per cui altri farmaci non si sono rivelati all’altezza. Per questo, concludono i ricercatori, “l’incapacità delle professioni mediche e farmaceutiche di abbracciare le CBPM nonostante siano state rese ‘legali’ più di 18 mesi fa è una grande preoccupazione per i pazienti e probabilmente avrà già portato a morti prevenibili per patologie come l’epilessia”.
Il documento stilato dagli studiosi ha lo scopo di aiutare i medici a “sviluppare approcci per superare l’attuale situazione insoddisfacente” e affrontare la sfida alla prescrizione di cannabis terapeutica.